Ragù di carne

Sì, c’è una storia che un poco è leggenda e un poco è verità. C’è anche l’etimologia del termine che, come nella maggior parte dei vocaboli dialettali napoletani, è francese. Ma del ragù, vogliamo raccontarvi un’altra storia, che è sempre la stessa, ogni domenica, dal 1300 circa. Inizia così, con l’odore della cipolla rosolata nell’olio che si spande nelle scale dei palazzi. La carne sfrigola per un po’, i bambini la sentono mentre si attardano con la testa sul cuscino ché è giorno di festa. Quando tocca al pomodoro c’è un tripudio di odori e rumori, il sugo denso che scoppia in grosse bolle, l’olio che protesta a contatto col freddo del sugo. La pentola di alluminio sussurra a lungo, sbuffa sottilmente, “pippea”, per cinque, sei ore. I bambini, già affamati, si aggirano intorno al fuoco come piccole aquile, cercando qualche fetta di pane da bagnare nel sugo bollente senza subire i rimbrotti benevoli della mamma. Gli uomini sono seduti al tavolo della cucina, a spezzare con mani esperte le candele o gli ziti. I piccoli frammenti che schizzano vengono raccolti con dovizia nella ciotola, saranno la parte più gustosa del piatto. Il finale di questa storia è dei più lieti, e si svolge intorno a una tavola chiassosa, quando il sugo di pomodoro è diventato quasi nero e la carne è talmente tenera da sembrare burro. E c’è chi ci mette la tracchiulella, chi la braciola, chi la salsiccia o alla fine tuffa nel sugo anche qualche polpetta. Il ragù è una storia nostra, una storia napoletana, universale e tuttavia unico, un rito che si ripete ogni domenica e in ogni luogo del mondo dove si trovi un napoletano. Il ragù non è semplicemente un piatto, è un modo di vivere, aspettare, gustare e ricordare. ’O rraù ca me piace a me m’ ‘o ffaceva sulo mammà. A che m’aggio spusato a te, ne parlammo pè ne parlà. Io nun songo difficultuso; ma luvàmmel’ ’a miezo st’uso Sì, va buono: comme vuò tu. Mò ce avéssem’ appiccecà? Tu che dice? Chest’è rraù? E io m’ ’o mmagno pè m’ ’o mangià... M’ ’a faje dicere ’na parola?... Chesta è carne c’ ’a pummarola. Eduardo De Filippo

Ingredienti

  • 500 g di muscolo di manzo
  • 500 g di gallinella di maiale (muscolo di maiale)
  • 500 g/1 kg di tracchie (costine di maiale)
  • olio evo
  • q.b. di vino rosso
  • 1 cucchiaio o due di concentrato di pomodoro
  • 200 g di passata di pomodoro
  • 50 g di cipolle
  • 4
  • 4 ore
  • Facile
  • Pasta

Preparazione

1

La maggior parte delle fonti riporta, a proposito del ragù napoletano tradizionale, come prima fase quella di “lardellata”, ossia inserire nei pezzi, prima di legarli, prosciutto crudo, pancetta e pepe. La maggior parte dei napoletani moderni non lo fanno, essendo di per sé già abbastanza pesante, data la cottura lunghissima. Il grasso contemplava anche la sugna oltre all’olio.
Allo stesso modo, secondo le finti antiche, la prima fase di cottura dovrebbe essere di due ore senza il pomodoro.
La tradizione imporrebbe, inoltre, un tegame di rame o di creta (il cosiddetto tiano).

2

Tagliate le cipolle a julienne, e rosolatele nell’olio, stando attenti a non farle bruciare.

3

Aggiungete la carne e rosolate con cura da tutti i lati per chiuderne i pori. Aggiungete un po’ di vino rosso in due riprese e lasciatelo evaporare. Questa fase dura circa quaranta minuti.

4

A questo punto aggiungete il concentrato di pomodoro e scioglietelo nell’olio.
È il momento della salsa di pomodoro, che aggiungerete aumentando la fiamma, con qualche mestolo di acqua. Non appena raggiunge il bollore, diminuite il fuoco al minimo e lasciate “pippiare”, cioè sobbollire.
Durante questa fase, la pentola dovrà avere il coperchio, ma essere leggermente aperta, grazie a un mestolo o altro strumento lungo.

5

Dovrà continuare così almeno quattro ore, fino a sei. Di tanto in tanto controllate se la carne si è intenerita. Se è cotta, potete anche toglierla dal sugo (ci sono dei pezzi che hanno cottura più breve), per non farla sfaldare, e poi rimetterla alla fine.
Il ragù sarà pronto quando il sugo di pomodoro sarà denso, scuro e dall’aspetto lucido.